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La via italiana all’economia di mercato.

Esiste un’alternativa al modello di economia capitalistica di stampo anglosassone? Si possono conciliare mercato ed equità sociale?
I vari disastri finanziari che abbiamo vissuto negli ultimi anni, le bolle speculative, il caso dei mutui subprime, dei contratti derivati e delle mille altre alchimie finanziarie che stanno rischiando di soffocare anche l’economia reale, sono il frutto avariato di un sistema sano, oppure è lo stesso sistema ha dimostrarsi fallace?
Secondo una scuola economica milanese, che vede nel prof. Luigino Bruni dell’Università Bocconi uno degli esponenti più insigni, le risposte a queste domande possono essere trovate (o riscoperte) negli studi degli economisti italiani del XVIII secolo.
Secondo questa accattivante corrente di pensiero, l’economia di mercato nasce in Italia nel 1200, per svilupparsi attraverso il Medioevo e giungere all’età moderna come scambio di beni tra persone, soggettivamente ben identificate e che si “fidavano” le une delle altre.
Poi, nel XVIII secolo, la strada si biforca: in Italia economisti come Antonio Genovesi, Giacinto Dragonetti e Gaetano Filangeri sostengono che l’economia è la scienza della “felicità comune”, che lo scambio di merci e servizi non può prescindere dalla fiducia reciproca tra le persone, che la competizione altro non è che “cum-petere” assieme, ossia operare in modo unitario per il bene comune; in nord Europa, invece, dal pensiero positivista nasce la scuola scozzese, con Adam Smith quale esponente più noto, che teorizza l’irrilevanza della “persona” nello scambio commerciale e, addirittura, sostiene che più è “anonimo” il mercato, meglio si sviluppano i traffici, che restano così liberi da influenze inutili e moderati dall’unico elemento che serve ad un mercato libero: il prezzo.
Questa è stata, come è noto, la tesi vincente: il mercato si è completamente spersonalizzato e la globalizzazione ne è l’effetto più evidente. Non importa né chi sia il consumatore né, tantomeno, chi sia il produttore: ciò che rileva è solo la richiesta (il “bisogno”) e la relativa soddisfazione (il “prodotto”), mediate dal prezzo che, solo, modera il mercato, divenuto così asettico ed efficiente.
Ed appunto l’economia si distingue dalla sfera politica in quanto in quest’ultima le persone hanno il diritto/dovere di far “voice”, protestare e far valere in questo modo i propri pensieri, pretendendo che i propri referenti mutino comportamenti, scelte, decisioni.
Nell’economia, invece, prevale la regola dell’exit: se il prodotto non ti soddisfa, non c’è bisogno di protestare col produttore, in quanto basta rivolgersi ad un altro produttore. Quello meno “soddisfacente” viene, così, espulso automaticamente dal mercato, che premia solo i migliori. L’unico motore che spinge l’imprenditore (ma anche il lavoratore in senso lato) è, secondo quest’ottica, il desiderio di profitto. Quanto successo nell’ultimo anno, però, ha dimostrato la fallacia di questa costruzione. Se l’unico interesse del manager è la produzione di utili, essendo l’impresa del tutto indifferente alle “persone” cui si rivolge, allora si possono legittimamente vendere i titoli spazzatura, le obbligazioni con scadenza 2035 alle nonnine, le polizze assicurative non garantite da alcun capitale, persino cartolarizzare, impacchettare e vendere sul mercato i mutui erogati a soggetti assolutamente incapaci di pagarne le rate!
E, per uscire dalla finanza, se non mi interessa affatto chi è la persona che compra, allora basta che io rispetti letteralmente la legge e produca a basso costo: potrò cosÏ vendere prodotti scadenti (se non pericolosi), realizzati sfruttando il lavoro minorile all’estero, inquinando i paesi poveri, sfruttando popolazioni bisognose.
E’ questa l’unica via?
O, invece, è possibile pensare ad un altro tipo di economia di mercato, sempre di matrice liberale e capitalistica ma più attenta alla necessità di contemperare le esigenze sia del produttore che del consumatore? Un modo, forse, c’è ed è quello ipotizzato dai pensatori italiani (napoletani, nella specie) citati all’inizio.
Se lo scopo del mercato è soddisfare i bisogni, perché lo scopo dell’imprenditore deve essere diverso?
Perché dobbiamo necessariamente continuare ad insistere che lo scopo unico dell’impresa è la produzione di utili? Il più grande Presidente della nostra Repubblica era un economista, Luigi Einaudi, ed egli sosteneva che lo scopo dell’impresa non è la produzione di utili, ma la “realizzazione di un progetto”, secondo precisi vincoli di bilancio. L’utile, il profitto, sarà uno dei risultati, ma non l’unico. Se io produco violini per venderli, lo scopo della mia attività non è realizzare il profitto, ma vendere bei violini e, con questa attività, guadagnarmi onestamente da vivere.
Realizzare violini da vendere è il progetto della mia impresa, rispettare il vincolo di bilancio è una regola di fondo, che mi permette di ottenere il giusto guadagno e, quindi, di vivere.
Sostituite “vendere violini” con qualsiasi altra attività ed il risultato è lo stesso.
Questo concetto supera quelli di responsabilità sociale d’impresa, terzo settore, non-profit e simili, perché “sociale” ed “impresa” non sono due concetti separati, due mondi distinti che possono comunicare solo forzosamente (attraverso il volontariato, ad esempio: un lavoro non retribuito che, quindi, non è attività d’impresa).
L’impresa è sociale, perché vive ed opera nella realtà civile, in cui tutti i soggetti si impegnano per uno scopo comune, si rispettano, si fidano l’uno dell’altro.
L’impresa civile è la via indicata tre secoli fa da alcuni pensatori italiani che la Storia aveva messo un po’ in disparte.
Riscopriamoli.